I pomeriggi della Fondazione

Con Roma Vittorio Giacopini forgia il nuovo mito della città eterna al culmine della sua rovina.

«Non è città da spegnersi con le fiamme, Roma la vacca. Incendi, combustioni, orride pire. Parigi, Londra, New York, Lisbona, Amburgo ne avevano viste di peggiori: rigeneranti! Ma qui, altro che Araba Fenice, altro che balle. Qui nulla arde mai davvero, e nulla rinasce. Tenebroso, fidava in un’altra morte il rinnegato (lui, che da romano vero, fatto e finito, voleva vederla dissolversi la sua città, liquidamente svanire, mutarsi in lago).»

Colli, fiumi, piazze gremite, chioschi dei giornali. Lezzo di benzina e sudore. È Roma, latrina del mondo, sommersa dai gorgoglii delle fogne, dalle piogge acidule di aprile, dalle minzioni degli accattoni alla stazione. Roma scavata dai cunicoli sotterranei, dove preti e topi scappano o tornano dalle purpuree stanze del trono papale. I centurioni che difendono un Colosseo fatiscente hanno tatuaggi tribali e fumano smorzando le cicche sulla suola dei calzari. Il Tevere rigetta le sue acque bionde sui marciapiedi, e in ogni momento sembra possa sommergere i quartieri nobili della capitale. I turisti invadono le strade con il loro afrore barbaro, avvelenano l’aria di cartacce e si ritraggono in bermuda davanti ai Fori Imperiali. Nei bar si ringhia per il derby tra Roma e Lazio. L’aria sa di birra e pattumiera, tra le erbacce siringhe e preservativi si sciolgono al sole romano. Per questo Roma è il più spregevole dei paradisi, e stanotte deve sprofondare. Il piano di Lucio Lunfardi, ex giornalista e ora abominevole sobillatore, è chiaro: non darla alle fiamme come Nerone, non incenerirla per poi vederla rinascere come un’Araba Fenice. Roma va annegata dalle sue stesse acque, fino a farne uno stagno, una cloaca a cielo aperto, un liquame immortale. È l’unico modo per arrestare uno sfacelo millenario: secoli di storia ammorbati, epoca dopo epoca, stratificazione dopo stratificazione, da nuovi abitanti sempre più volgari e impudenti. Per riuscirci, Lunfardi deve agire con cautela e di nascosto, studiare dietro i suoi camuffamenti le fragilità, le corruzioni, i miasmi romani, scrutare da lontano le architravi dei ponti, le mura, gli acquedotti, e poi fantasticare su come farli saltare. Fin dalla sua fondazione dèi e conquistatori hanno provato a distruggere la caput mundi, ma hanno sempre fallito. Questa volta il piano è folle ma diabolico, dunque, dopo interminabili anni, stanotte Roma è pronta a morire. Con Roma Vittorio Giacopini forgia il nuovo mito della città eterna al culmine della sua rovina. Una narrazione epica e visionaria, capace di trattenere nella viscosità di una lingua immaginifica le perversioni e le fantasie di un anarchico che, insieme alla sua banda scapestrata, ne incarna il sentimento comune: quello autodistruttivo ma confusionario, rivoluzionario ma ozioso. È la Roma dei sogni impossibili, svaniti per indolenza o realizzati soltanto per caso.

 

Vittorio Giacopini è un giornalista e redattore; lavora nell'agenzia di stampa TMNews, collabora con «Lo straniero» ed è conduttore di trasmissioni Rai. Autore di vari saggi come Scrittori contro la politica (Bollati Boringhieri 1999), ha anche scritto alcuni romanzi: Re in fuga. La leggenda di Bobby Fischer (Mondadori 2008), Il ladro di suoni (Fandango 2010) e L'arte dell'inganno (Fandango 2011). Con elèuthera ha pubblicato Una guerra di carta, il Kosovo e gli intellettuali (2000) e No-global tra rivolta e retorica (2002), oltre ad aver curato la raccolta di scritti politici di Albert Camus, Mi rivolto dunque siamo (2009). E ancora: Fuori dal sistema. Il linguaggio della protesta (minimumfax 2004), e Al posto della libertà. Breve storia di John Coltrane (e/o 2005).